Приключения Пиноккио / Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino - Карло Коллоди
- Дата:12.06.2024
- Категория: Детская литература / Сказка
- Название: Приключения Пиноккио / Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
- Автор: Карло Коллоди
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Карло Коллоди. Приключения Пиноккио / Carlo Collodi. Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
© ООО «Издательство АСТ», 2015
© А. И. Каминская, подготовка текста, комментарии, упражнения и словарь, 2015
1. Come andò che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino
C’era una volta[1] un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, che d’inverno si mettono nelle stufe per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse[2], ma un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se non che[3] tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via[4] della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e borbottò a mezza voce:
– Questo legno è capitato a tempo[5]; voglio fare una gamba di tavolino.
Detto fatto[6], prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi:
– Non mi picchiar tanto forte!
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprì l’uscio di bottega per dare un’occhiata[7] anche sulla strada, e nessuno. O dunque?…
– Ho capito; – disse allora ridendo e grattandosi la parrucca – si vede che quella vocina me la sono figurata io[8]. Rimettiamoci a lavorare.
E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
– Ohi! tu m’hai fatto male! – gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, con gli occhi fuori del capo per la paura, con la bocca spalancata e con la lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire:
– Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco… Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui.
E così dicendo, agguantò con tutte e due le mani quel povero pezzo di legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.
Poi si messe in ascolto[9], per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
– Ho capito; – disse allora arruffandosi la parrucca – si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare.
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, sentì la solita vocina che gli disse ridendo:
– Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo viso pareva trasfigurito, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.
2. Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il quale lo prende per fabbricarsi un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali
In quel punto fu bussato alla porta.
– Passate pure, – disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi.
Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato lo chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla, che somigliava moltissimo alla polendina di granturco.
Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito una bestia, e non c’era più verso di tenerlo.
– Buon giorno, mastr’Antonio, – disse Geppetto. – Che cosa fate costì per terra?
– Insegno l’abbaco alle formicole.
– Buon pro vi faccia.
– Chi vi ha portato da me, compare Geppetto?
– Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore.
– Eccomi qui, pronto a servirvi, – replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi.
– Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea[10].
– Sentiamola.
– Ho pensato di fabbricare un bel burattino di legno: ma un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?
– Bravo Polendina! – gridò la solita vocina.
A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito:
– Perché mi offendete?
– Chi vi offende?
– Mi avete detto Polendina!..
– Non sono stato io.
– Sta’ un po’ a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi.
– No!
– Sì!
– No!
– Sì!
E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono e si morsero.
Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accorse di avere in bocca la parrucca brizzolata del falegname.
– Rendimi la mia parrucca! – gridò mastr’Antonio.
– E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace.
I due vecchietti strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita.
– Dunque, compar Geppetto, – disse il falegname in segno di pace fatta – qual è il piacere che volete da me?
– Vorrei un po’ di legno per fabbricare il mio burattino; me lo date?
Mastr’Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel pezzo di legno. Ma quando fu lì per consegnarlo all’amico, il pezzo di legno dette uno scossone e andò a battere con forza negli stinchi del povero Geppetto.
– Ah! gli è con questo bel garbo, mastr’Antonio, che voi regalate la vostra roba? M’avete quasi azzoppito!..
– Vi giuro che non sono stato io!
– Allora sarò stato io!..
– La colpa è tutta di questo legno…
– Lo so che è del legno: ma siete voi che me l’avete tirato nelle gambe!
– Io non ve l’ho tirato!
– Bugiardo!
– Geppetto non mi offendete; se no vi chiamo Polendina!..
– Asino!
– Polendina!
– Somaro!
– Polendina!
A sentirsi chiamar Polendina, Geppetto si avventò sul falegname.
A battaglia finita, mastr’Antonio si trovò due graffi di più sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita.
Intanto Geppetto prese con sé il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa.
3. Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino
La casa di Geppetto era una stanzina terrena. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo.
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino.
– Che nome gli metterò? – disse fra sé e sé[11]. – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna.
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi.
Fatti gli occhi, figuratevi la sua meraviglia quando si accorse che gli occhi si movevano e che lo guardavano.
Geppetto disse con accento risentito:
– Occhiacci di legno, perché mi guardate?
Nessuno rispose.
Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci, diventò in pochi minuti un nasone.
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo.
Dopo il naso gli fece la bocca.
La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo.
– Smetti di ridere! – disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro.
– Smetti di ridere, ti ripeto! – urlò con voce minacciosa.
Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.
Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare.
Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
Appena finite le mani, Geppetto sentì portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.
– Pinocchio!.. rendimi subito la mia parrucca!
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé.
A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece tristo e voltandosi verso Pinocchio, gli disse:
– Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!
E si rasciugò una lacrima.
Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso.
– Me lo merito! – disse allora fra sé. – Dovevo pensarci prima! Oramai è tardi!
Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, per farlo camminare.
Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro.
Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.
E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini.
– Piglialo! piglialo! – urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva.
Alla fine capitò un carabiniere il quale, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto[12] di fermarlo e d’impedire il caso di maggiori disgrazie.
Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere, che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, framezzo alle gambe, e invece fece fiasco.
Il carabiniere lo acciuffò per il naso e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? perché si era dimenticato di farglieli.
Allora lo prese per la collottola, e gli disse tentennando minacciosamente il capo:
– Andiamo subito a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti[13]!
Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello[14].
Chi ne diceva una, chi un’altra[15].
– Povero burattino! – dicevano alcuni – ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo piccherebbe quell’omaccio di Geppetto!..
E gli altri soggiungevano:
– Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi!
Insomma, il carabiniere rimesse in libertà Pinocchio, e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì[16] per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava:
– Sciagurato figliolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!..
Quello che accadde dopo, è una storia così strana da non potersi quasi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.
4. La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noia di sentirsi correggere da chi ne sa più di loro
Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio se la dava a gambe giù attraverso ai campi, per far più presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale[17] come avrebbe potuto fare un capretto inseguito dai cacciatori.
Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella stanza qualcuno che fece:
– Crì-crì-crì!
– Chi è che mi chiama? – disse Pinocchio tutto impaurito.
– Sono io!
Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente per il muro.
– Dimmi, Grillo, e tu chi sei?
– Io sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da più di cent’anni.
– Oggi però questa stanza è mia, – disse il burattino – e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito.
– Io non me ne anderò di qui, – rispose il Grillo – se prima non ti avrò detto una gran verità.
– Dimmela e spicciati.
– Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
– Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire[18] mi manderanno a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e io di studiare non ne ho punto voglia.
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