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– O Fata mia! – cominciò allora a strillare il burattino – datemi subito quel bicchiere… Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire, no… non voglio morire.
E preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo vuotò in un fiato.
– Pazienza! – dissero i conigli. – Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo.
E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lì a pochi minuti[84], Pinocchio saltò giù dal letto, guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro, gli disse:
– Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?
– Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!..
– E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?
– Noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.
– Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte…
– Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle… e allora piglierò subito il bicchiere in mano, e giù!..
– Ora vieni un po’ qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.
– Gli andò[85], che il burattinaio Mangiafoco mi dette cinque monete d’oro, e mi disse: “To’, portale al tuo babbo!”, e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: “Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei miracoli.” E io dissi: “Andiamo;” e loro dissero: “Fermiamoci qui all’osteria del Gambero rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo.” E io, quando mi svegliai, loro non c’erano più, perché erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: “Metti fuori i quattrini;” e io dissi: “non ce n’ho;” perché le monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri, finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco col dire: “Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua”.
– E ora le quattro monete dove le hai messe? – gli domandò la Fata.
– Le ho perdute! – rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in tasca.
Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più.
– E dove le hai perdute?
– Nel bosco qui vicino.
A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.
– Se le hai perdute nel bosco vicino – disse la Fata – le cercheremo e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre.
– Ah! ora che mi rammento bene – replicò il burattino imbrogliandosi – le quattro monete non le ho perdute, ma le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina.
A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.
E la Fata lo guardava e rideva.
– Perché ridete? – gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva.
– Rido della bugia che hai detto.
– Come mai sapete che ho detto una bugia?
– Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo.
Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera; ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta.
18. Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete nel Campo dei miracoli
Come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che non passava più dalla porta di camera; e lo fece per dargli una severa lezione e perché si correggesse dal brutto vizio di dire le bugie, il più brutto vizio che possa avere un ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, battè le mani insieme, e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo, e in pochi minuti quel naso enorme si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.
– Quanto siete buona, Fata mia, – disse il burattino – e quanto bene vi voglio[86]!
– Ti voglio bene anch’io – rispose la Fata – e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina…
– Io resterei volentieri… ma il mio povero babbo?
– Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato avvertito: e prima che faccia notte, sarà qui.
– Davvero? – gridò Pinocchio, saltando dall’allegrezza. – Allora, Fatina mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l’ora di[87] poter dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!
– Va’ pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicura che lo incontrerai.
Pinocchio partì: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre. Ma quando fu arrivato a un certo punto[88], quasi in faccia alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate chi?… la Volpe e il Gatto.
– Ecco il nostro caro Pinocchio! – gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo. – Come mai sei qui?
– Come mai sei qui? – ripetè il Gatto.
– È una storia lunga – disse il burattino – e ve la racconterò. Sappiate però che l’altra notte, quando mi avete lasciato solo sull’osteria, ho trovato gli assassini per la strada…
– Gli assassini?… Oh povero amico! E che cosa volevano?
– Mi volevano rubare le monete d’oro.
– Infami!.. – disse la Volpe.
– Infamissimi! – ripetè il Gatto.
– Ma io cominciai a scappare – continuò a dire il burattino – e loro sempre dietro: finché mi raggiunsero e m’impiccarono a un ramo di quella quercia…
E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lì a due passi.
– Si può sentir di peggio? – disse la Volpe. – In che mondo siamo condannati a vivere! Dove troveremo un rifugio sicuro?
Nel tempo che parlavano così, Pinocchio si accorse che il Gatto era zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo zampetto: per cui gli domandò:
– Che cosa hai fatto del tuo zampetto?
Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s’imbrogliò. Allora la Volpe disse subito:
– Il mio amico è troppo modesto, e per questo non risponde. Risponderò io per lui. Sappi dunque che un’ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l’amico mio? Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l’ha gettato a quella povera bestia.
E la Volpe, nel dir così, si asciugò una lacrima.
Pinocchio si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi:
– Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!..
– E ora che cosa fai in questi luoghi? – domandò la Volpe al burattino.
– Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento[89].
– E le tue monete d’oro?
– Le ho sempre in tasca.
– E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e duemila! Perché non dai retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel Campo dei miracoli?
– Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.
– Un altro giorno sarà tardi!.. – disse la Volpe.
– Perché?
– Perché quel campo è stato comprato da un gran signore, e da domani in là non sarà più permesso a nessuno di seminarvi i denari.
– Quant’è distante di qui il Campo dei miracoli?
– Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila, e stasera ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi?
Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finì col dare una scrollatina di capo[90], e disse alla Volpe e al Gatto:
– Andiamo pure: io vengo con voi.
E partirono.
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, e di pavoni tutti scodati.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano alcune carrozze signorili con dentro o qualche Volpe, o qualche Gazza ladra.
– E il Campo dei miracoli dov’è? – domandò Pinocchio.
– È qui a due passi.
Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un campo solitario che somigliava a tutti gli altri campi.
– Eccoci giunti – disse la Volpe al burattino. – Ora chinati giù a terra, scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete d’oro.
Pinocchio obbedì. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e dopo ricoprì la buca con un po’ di terra.
– Ora – disse la Volpe – va’ alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e annaffia il terreno dove hai seminato.
Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva una secchia, si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi domandò:
– C’è altro da fare?
– Nient’altro – rispose la Volpe. – Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una ventina di minuti, e troverai l’arboscello coi rami tutti carichi di monete.
Il povero burattino ringraziò mille volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.
– Noi non vogliamo regali – risposero questi due malanni. – A noi ci basta di averti insegnato il modo di arricchire, e siamo contenti.
Ciò detto salutarono Pinocchio e se ne andarono per i fatti loro.
19. Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro, e per castigo, si busca quattro mesi di prigione
Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.
E mentre camminava, il cuore gli batteva forte. E intanto pensava dentro di sé: “E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?… E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila? e se invece di cinquemila, ne trovassi centomila? Oh che bel signore diventerei!.. Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, una cantina di rosoli, e una libreria tutta piena di canditi, di torte e di mandorlati”.
Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattata di capo.
In quel mentre sentì una gran risata: voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso Pappagallo.
– Perché ridi? – gli domandò Pinocchio.
– Rido, perché nello spollaiarmi mi sono fatto il solletico sotto le ali.
Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose novamente ad annaffiare la terra, che ricopriva le monete d’oro.
Quand’ecco un’altra risata.
– Insomma – gridò Pinocchio, arrabbiandosi – si può sapere di che cosa ridi?
– Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.
– Parli forse di me?
– Sì, parlo di te; di te che sei così dolce di sale[91] da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta. Oggi mi son dovuto persuadere che per mettere insieme[92] onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.
– Non ti capisco – disse il burattino.
– Pazienza! Mi spiegherò meglio – soggiunse il Pappagallo. – Sappi dunque che la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento.
Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, fece una buca profonda, ma le monete non c’erano più.
Preso allora dalla disperazione[93], tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.
Il giudice era una scimmia della razza dei Gorilla: una vecchia scimmia rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo d’una flussione d’occhi.
Pinocchio raccontò per filo e per segno[94] l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome dei malandrini, e finì chiedendo giustizia.
Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto: s’intenerì: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due cani mastini vestiti da giandarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:
– Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e mettetelo subito in prigione.
Il burattino rimase di princisbecco[95] e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di[96] perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.
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