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Читем онлайн Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze - Франческо Доменико Гверрацци

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E ricopertosi il capo, con feroce sembianza brandita la spada, riprese:

“Soldati, non mi vogliate abbandonare in questo giorno”.

I cavalieri imperiali, sospettando ormai la malizia dei Gavinanesi e già vedendo apparire le insegne fiorentine, non si tennero più in freno, ma, trascorrendo a mano diritta lungo le mura di Gavinana, si fecero animosamente ad incontrare il nemico.

Nessuno vinceva, e si distruggevano tutti. Alcuni cavalieri fiorentini, o trasportati dall’estro della strage, o sia piuttosto, come crediamo, desiderosi col sacrificio delle proprie persone assicurare la salute della patria, scorgendo un calle su per la costa del monte, vi salirono a stento, e quando furono giunti a conveniente altezza, gridarono: “Viva la Repubblica!” – poi spinsero giù alla dirotta i cavalli, cacciando loro nel ventre intieri gli sproni. Quando loro percossero i fianchi dei nemici, alcuni dei nostri rimbalzati dall’urto oltrepassarono volando sopra di loro e andarono capovolti ad incontrare la morte giù nel dirupo; altri caddero infranti tra le zampe dei cavalli: nondimeno così irresistibile fu l’impeto che la schiera si ruppe, e con eccidio miserabile ben molti tennero dietro nel precipizio ai nostri che tanto nobilmente si erano sagrificati. Allora crebbe il cuore ai Forentini: i capitani sopra gli altri volevano essere, siccome maggiori nel comando, così primi nel pericolo; sorse stupenda una gara di affrontare la morte; incalzano i Ferrucciani, piegano gli Orangeschi; indi a poco i cavalli, trovando dietro a sé bastevole spazio, si volgono e si danno alla fuga.

“Vittoria! vittoria!” con immense strida gridavano i soldati del Ferruccio, respinti i nemici e dispersi per la campagna, rientrando nelle mura di Gavinana. I terrazzani dai balconi, dai tetti plaudivano battendo palma a palma e sventolando candidi pannilini. Le campane sonavano a gloria.

“Vittoria! vittoria!” rispondono i cavalleggeri fuori delle mura, i quali a posta loro, ributtati i cesarei, occupavano il piano delle Vergini. Dappertutto allegrezza. Il cielo stesso placato lasciava aperto tra le sue nuvole un adito al raggio del sole, l’ultimo che salutasse il gonfalone della Repubblica Fiorentina.

E il prode Ferruccio, palpitante, bagnato di sangue nemico e de’ suoi si appoggia all’asta della lancia sotto il magnifico castagno che sorgeva sopra la piazza della Gavinana. I suoi occhi stanno rivolti al firmamento porgendo col cuore grazie fervidissime a Dio; non lo poteva con le labbra, ché lo impediva l’affanno.

…La battaglia si continua; il Ferruccio respinge dalla Gavinana il nemico, lo disperde per la campagna, e dubbioso sia per tornargli addosso da capo, non si ferma finchì vede persona davanti a sì; allora fece sosta, ed accorgendosi che la punta della stradiotta per lo spesso ferire erasi storta, si chinò e raccolse da terra uno spadone a due mani di quelli che usavano i lanzichenecchi; poi, ordinati i superstiti a chiocciola, s’incammina al castello in soccorso di quelli che vi aveva lasciato. Le torme dei cesarei intanto si erano chiuse dentro di lui e avevano invaso tutte le strade della Gavinana: i suoi ben tuttavia vi stavano dentro, ma diventati cadaveri. In quel momento il Ferruccio alzò la voce e chiamò a nome i suoi più valorosi compagni; nessuno gli risponde; la morte aveva loro resa inerte la lingua.

Ora, mentre la sua anima pensando al fato di tanti prodi sospira, due grosse bande di nemici, imbaldanziti dalla vittoria e disposti ad abusarne quanto più furono immeritevoli di conseguirla, con minacce barbariche gl’intimano da lontano la resa.

Giampagolo Orsino, ormai disperato, si accosta al Ferruccio e gli domanda:

“Signor commessario, vogliamo noi arrenderci?”

“No”, – gli risponde con forza il Ferruccio; e piegata secondo il suo costume la testa, si avventa primo contro i sorvegnenti imperiali.

Nicolò Strozzi, considerando come quel valoroso, più che a mezzo morto, potesse appena reggere la spada, non volle si esponesse a sicurissimo eccidio; onde presto si pose tra il nemico e lui, riparandogli col proprio corpo le ferite.

Ma il Ferruccio, brontolando, lo trasse in disparte e in ogni modo volle pel primo affrontare il nemico. Cessata la speranza di vincere, combattono per non morire invendicati. Gl’imperiali abborrenti di sostenere l’estreme ire di quei terribili uomini, si allargano e li bersagliano con gli archibusi da lontano. Ad ogni momento ne cadeva uno per non più rilevarsi, né i superstiti pensano ad arrendersi. Anche la Toscana ebbe i suoi Trecento e Leonida.

“Il gonfalone di Firenze! Gli angeli scendono a difenderlo: viva la Repubblica!”

Questo grido mandarono il Ferruccio e i suoi compagni, allorchì, alzando all’improvviso lo sguardo, videro sventolare al balcone di un castelletto posto sopra certa eminenza accanto le mura di Gavinana la bandiera del comune.

E al balcone si affacciò Vico Machiavelli, che con la voce e col cenno chiamava i compagni a riparare in cotesto estremo propugnacolo. Non senza nuove perdite colà si condussero; stremati com’erano di forze e di sangue, quella breve erta parve loro infinita. Sbarrarono le porte, come meglio poterono si afforzarono e dai balconi, dalle feritoie, che anche in oggi si vedono, presero a bersagliare il nemico.

Gl’imperiali, sospinti dalle minacce dei capitani, che dietro loro incalzavano con la spada nuda, molte volte salirono all’assalto, e sempre sopraffatti dalla tempesta delle palle piegarono. Maramaldo, rimasto in Gavinana, sentendo riuscire i conati invano, spumava di rabbia, e all’ultimo mandò a dire che se in mezz’ora non superavano il castello, gli avrebbe appiccati quanti erano. Si accingono all’ultima prova; le palle vengono più rare; arrivati a mezza costa scemano ancora; a piì del muro cessano affatto, stanno immobili alquanto di tempo paurosi di sorpresa, non offesi si rinfrancano, i più timidi saliscono a gara, insieme uniti si sforzano a rompere le imposte, a scalare i balconi.

I nostri non hanno più polvere, non palle, e dimentichi dei pericoli e dei propri dolori, contemplano l’agonia di un valoroso. Ferruccio giace sopra un letto di foglie castagnine; non ha parte di corpo illesa; invano tentarono arrestargli il sangue, prorompe dagli orli delle fasciature, distilla dai lini temprati. Genuflesso a destra, gli sorregge il capo Vico Machiavelli, il quale forte si abbranca il petto sotto la mammella sinistra per impedire anch’egli lo sgorgo del sangue da una ferita ricevuta in quella parte, e dalla manca simile cura gli rende Annalena, anch’ella genuflessa.

Ardono in terra alcune lampade, le quali quando il sole illumina il nostro emisfero partoriscono effetto sempre solenne nell’uomo, imperciocché accennino la presenza della morte – o Dio.

La morte con la mano grave chiudeva gli occhi al Ferruccio, ma l’animoso, sforzandosi scoterne il peso, avventava la pupilla coruscante a modo di baleno verso il balcone. Allora il Ferruccio non contese più oltre la potenza della morte, lasciò abbassata la palpebra e sospirò con mestissimo accento:

“È caduto! È caduto!”

All’improvviso le porte sfasciate si disfanno, irrompe il nemico nelle sale del castello. Di stanza propagato in istanza, ecco percuote le orecchie del nemico una cantilena di sacre preci, un singhiozzare sommesso; un suono di pianto, siccome avviene nelle case che sta per visitare la morte. Entrarono e videro l’agonia del campione della Repubblica, o piuttosto dell’ultimo fra i grandi Italiani.

Ciò dicendo mosse per aggiungere alle parole l’esempio e già stendeva le mani su quelle sacre membra, quando Vico Machiavelli saltando all’improvviso in piedi lo respinse lontano, poi levatasi la destra dalla ferita strinse la spada ottusa nel taglio, troncata nella punta, e l’alzò per percuoterlo. Ahimé! Il sangue spiccia a zampilli fuori della ferita, lui vacilla com’ebbro e, dopo alcuni vani conati per sostenersi, stramazza duramente per terra. Annalena gittando un urlo disperato abbandona il capo del Ferruccio e si protende smaniosa sul corpo del marito.

Dirimpetto alla chiesa della Gavinana sorge una casa, una volta Battistini, oggi appartenente ai Traversari. La porta principale essendo elevata assai dal terreno, vi si salisce mediante una scala a due branche che lasciano uno spazio di alquante braccia quadrate davanti la porta.

Qui sta Maramaldo volgendo di tratto in tratto lo sguardo verso la porta Apiciana per vedere e il Ferruccio giungesse. Finalmente l’empia voglia gli rimase soddisfatta; si apre la folla, e il Ferruccio, tratto a vituperio con ineffabile angoscia sopra i bastoni delle picche, si avvicina alla casa Battistini.

Maramaldo con subito alternare diventa in volto bianco e vermiglio. Glielo distesero ai piedi, e lui stette lungo tempo a guardarlo senza potere profferire parola, poi cominciò tra lo scherno e la rampogna:

“Infelice! Vedi a che ti ha ridotto il folle pensiero di resistere alle armi di sua maestà Carlo V imperatore e re, e del Beatissimo Padre? Vedi, sconsigliato, come in mala ora lasciavi il fondaco? Credevi forse che il combattere battaglia fosse così agevole che misurare panni? Stolto!

Tu hai senza scopo empito i sepolcri di tuoi concittadini. Tu, alla vanità che ti rode compiacendo, hai sagrificato migliaia di uomini. Dio ti ha riprovato, Dio ti confonde ai miei piedi; io potrei calpestarti, e tu lo meriteresti; ma rispetto in te il segno del cristiano e ti risparmio. Il Signore nella sua misericordia ti concede spazio sufficiente di vita per riparare ai tuoi falli; adempi al comando dell’Eterno e chiedi pubblica perdonanza all’imperatore…”

E questi vedendoselo ormai venire addosso, lo guarda in volto e sorridendo gli dice:

“Tu tremi! Ecco… tu ammazzi un uomo morto”.

E il ferro dell’assassino penetrò fino al manico nell’intemerato petto del prode Ferruccio. La bandiera nemica serve di lenzuolo funerario al Ferruccio… Lui lo vede… esulta e spira l’anima immortale.

Epilogo

La donna fuggendo e il vecchio inseguendo scorrono in piano di Doccia, rivedono la fonte dei Gorghi, il rivo delle Catinelle, si accostano a Gavinana, piegando a destra lungo le mura, e finalmente ansanti si fermano nel bosco delle Vergini a piì di un castagno. In verità uno dei più belli che crescano in quel campo, dove ne vegetano dei bellissimi, e nel suo tronco, ad arte scortecciato, mostrava una croce.

Cadendovi davanti genuflessa, appoggiandovi le mani una sopra l’altra, e su le mani declinando la testa, stette la donna immobile, bianca e, dove il palpito del seno non l’avesse dimostrata viva, uguale in tutto a statua di marmo.

E il vecchio le veniva accanto piegando anch’egli i ginocchi e, come lei, le mani e il capo appoggiando al tronco del castagno, senza parlarle, senza consolarla, senza pure toccarla; i suoi dolori erano di quelli che per parole non si placano; soltanto piangeva.

Immemore dapprima di ogni cosa terrena, la derelitta per quel pianto incessante si sentiva a mano a mano, dai truci fantasmi della immaginazione chiamata agli affanni della vita; allora si accorgeva del vecchio, che le plorava a canto e le si abbandonava nelle braccia, con le sue guancie premeva le guancie di lui, e confondevano insieme l’alito, i sospiri, le lagrime. Quanta inenarrabile angoscia aveva accumulato il Signore sul capo di quelle due creature!

I montanari, indovinando la causa per cui loro non potevano abbandonare coteste rupi, li compassionavano, ed anzi anch’essi, miti sotto il flagello di Dio, con ossequio religioso li proseguivano. Allo approssimarsi del verno, più che altrove, diviene squallida la natura su i monti, il vento si agita inquieto giù per le valli, lungo le forre, e il mormorio che nasce dalle foglie cadute menate in volta e diffondentesi per tanto spazio di paese, rassembra un lamento che mandino gli alberi e la terra nel vedersi rapire la bella veste di cui andarono superbi nelle migliori stagioni dell’anno.

Una sera dei primi giorni del verno, all’ora del crepuscolo, in quel momento in cui la luce e le tenebre si contendono il cielo, e l’anima umana vacilla tra le cure della vita e i pensieri della eternità, in cotesto istante, che anche all’assassino viene involontaria una preghiera della infanzia su i labbri, e nel cuore un pensiero per la madre che lo amò tanto, in quell’ora di mestizia e di pace, Lucantonio si presentò al metato[17] della casa nuova. Teneva in collo, sorreggendola col braccio destro, Annalena, che dalla pieghevolezza dei contorni sembrava addormentata, se non che la destra le pendeva inerte lungo il fianco, la manca dietro il dorso del vecchio, e questi si aiutava sorreggendosi forte al bastone, il capo aveva scoperto, i suoi capelli bianchissimi si disegnavano nella porpora del crepuscolo, gli avresti detti tinti nel sangue. Giunto in mezzo al metato, volgendosi ai montanari quivi raccolti, con ferma voce e non pertanto sinistra domandò se alcuno di loro per amore della Madonna e per i suoi danari avesse voluto accompagnarlo al piano delle Vergini con palo e zappa, onde assisterlo in un’opera pia.

“Per amore della Vergine e vostro senz’altro”, – risposero i montanari, – “noi vi accompagneremo”; e le loro donne, mogli e figlie, fosse pietà, fosse voglia curiosa, o l’una cosa e l’altra, vollero ad ogni patto seguitarli.

Procederono a due a due come in processione silenziosi; veniva ultimo il vecchio; lui non aveva permesso a nessuno di toccare Annalena; e sì che quel peso doveva gravarlo, e ad ogni passo che mutava, pareva accostarsi di un anno al sepolcro. Ad un tratto il vecchio proruppe nel cantico dei morti e supplicò al Signore Perché nella sua immensa misericordia avesse compassione di lui. E gli altri vennero ad ogni verso rispondendogli, sebbene ignorassero chi e dove fosse il defunto.

Lucantonio gli fece fermare nel bosco delle Vergini, a piì di un castagno, ordinando scavassero colà dove additava. Tolta alcun poco di terra, la vanga incontra stritolando ossa umane; il montanaro lascia l’arnese ficcato nella terra e rifugge inorridito.

“Continua l’opera, montanaro”, – con voce solenne riprende Lucantonio, – “tu non profani le ossa dei morti, io riunisco la moglie al marito, questa ch’io tengo su le braccia è la sposa, lo sposo giace là dentro, il sepolcro sia il talamo di ambedue. Ieri all’alba ella svenne e diventò fredda… io la esposi al sole… l’avviluppai in caldi pannilini… col mio fiato mi sono ingegnato riscaldarle le mani, ma ella si è fatta sempre più fredda… l’ho chiamata co’ nomi più cari… Vieni, le ho detto, sebbene questo pellegrinaggio mi avvelenasse il sangue, vieni, andiamo a visitare la fossa di Vico. Non mi ha risposto… Io l’ho tenuta per morta: ella difatti è morta…”

Il montanaro continua a scavare la fossa, e il vecchio soggiunge favellando ai circostanti:

“O madri! questa povera creatura non conobbe sua madre: o padri!… ella non ebbe le paterne carezze… La sua anima fu tesoro di amore… e per lungo tempo la sventura si appigliava ai lembi di questo e di quello, interrogando: Chi devo amare? Imperciocchì io l’era servo, e quando ella ebbe trovato un gentile garzone, prode e dabbene, Dio glielo ha tolto. Questi giovani appena si conobbero nella vita, ora staranno insieme una eternità. Lode al Signore!”

I montanari mal sapendo se quella lode al Signore uscisse sincera dal labbro del vecchio, o in fondo a quel discorso sonasse accento di disperazione, scherno o rampogna, piansero, calarono il corpo di Annalena nella fossa – e le pregarono pace.

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