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“Vico, io non muto mai; ma dite: voi da quel tempo in poi nulla vi sentite mutato? Allo amore di patria non si mescolò per avventura un altro amore? Vostro malgrado, non si levò nel cuor vostro un istinto di conservazione per la vostra vita dacché un’altra vita vi preme molto più della vostra? È santo il vostro affetto, ed io lo approvo; pure sarebbe stato meglio che vi avesse acceso in altra stagione. Ma i fati reggono gli eventi; io poi non domando mai cose superiori alla umana natura; male, penso, si lascia il fianco della sposa per affaticarsi quotidianamente al raggio del sole in battaglia”.
“Messere, l’uomo difenderà per religione quel sepolcro, Perché contiene le ossa de’ suoi congiunti e conterrà le sue; ma se vi aggiungi la difesa della sua sposa e dei figliuoli, allora il soldato ti parrà fulmine di Dio contro i nemici: io mi rammento avere udito raccontare dal padre di Vico come gli antichi Spartani non accettassero combattenti nella falange sacra dove non fossero innamorati…”
“E che vorreste fare, giovanetta?” – le domanda amorevolmente il Ferruccio.
“A lui”, – riprese Annalena additando Vico, – “quello che spetta a moglie d’uomo che combatte per la difesa della patria; a voi quanto incombe a figliuola di padre affettuosissimo: io per me abborro il sangue, e la guerra ì necessità che deploro con tutta l’anima; appresterò bende e rimedi alle ferite mentre voi vi avventurate al pericolo di riceverle; vi veglierò infermi; vi tempererò con freschi pannilini l’ardore delle membra quando vi travaglierà la febbre; riceverò nel mio seno il colpo che vi sarà indirizzato… vivrò con voi, e per voi morirò”.
Il matrimonio di annalena e Vico fu celebrato nelle domestiche pareti, chì prima del concilio di Trento molte formalità, diventate in seguito sostanziali, si trascuravano; mancarono i riti solenni; non vi assistì la corona dei parenti e degli amici. Il Ferruccio, modesto com’era, andò lui stesso per il prete. Furono nozze dicevoli al soldato in procinto di perdere la vita, alla donna che corre pericolo di diventare vedova prima che sposa. La religione del cuore supplì alle pompe religiose, l’amore immenso dei pochi alla proterva allegrezza dei molti convitati.
Compiti appena gli sponsali, Vico baciò in fronte la sua donna e tenne dietro al Ferruccio disposto a partire. Il Ferruccio, accompagnato dal nuovo commessario Andrea Giugni e dai capitani che lasciavano alla difesa di Empoli, Piero Orlandini cui lui stesso con fervidissime istanze aveva più volte raccomandato ai Dieci come prode non meno che prudente uomo di arme e della libertà sviscerato, Tinto da Battifolle, Bocchino Corso e il conte di Anghiari, percorre le file, esaminando se avessero trasgredito in nulla i comandamenti di lui. Affrettati i passi, Il Ferruccio giunse in Volterra il giorno stesso 26 aprile che si partì da Empoli, trascorsa appena la ventunesima ora: subitamente introduce i fanti per la porta del soccorso nella cittadella; fatti smontare i cavalleggeri e cavare le selle ai cavalli, per la medesima via gli mette dentro.
Ferruccio intanto, quasi il sole non gli avesse riarsa la faccia, il cammino stancate le membra, la fatica e la polvere assetato, taciturno si aggira per le mura della cittadella, specola i luoghi, esamina i muri, nota le archibusiere avverse, poi assente col capo ad una sua interna determinazione e, percotendo della palma aperta il parapetto, esclama: “Può farsi!”
…Cominciato l’assalto di Volterra: il Ferruccio con la sua mente pensò quell’assalto e con le sue mani lo vinse; preso da furore, cominciò da ferire quanti tra i suoi mostravano viltà, e fatta una testa di cavalleggieri armati a piede, si caccia avanti e riesce a capo della Via Nuova. Allora presero a rompere i muri delle case e sforzarsi di entrare; la disperazione da un lato e la speranza presentissima di vincere dall’altro riaccendono la mischia; di qua e di là, morti e ferite. Pur finalmente i muri furono rotti, i Ferrucciani si spandono nelle case. Allora comincia una guerra spicciolata su pei tetti, nelle cantine, di stanza in stanza, con molta strage dei soldati e dei cittadini di Volterra. I Ferrucciani, dalla dura resistenza inacerbiti, non serbano più modo, ed agli orrori già tanti aggiungono il fuoco, il quale apprendendosi agli antichi edifizii, come voglioso di primeggiare nella opera della distruzione, in breve ora riduce in cenere quaranta case: le avrebbe distrutte tutte, se all’improvviso squarciandosi il cielo con procella di saette e di tuoni non avesse mandato giù un acquazzone, il quale spense il fuoco e le forze degli assalitori spossati dal cammino e da sei ore di affannoso combattimento.
Nel giorno 13 giugno già tre furono gli assalti: il primo con dodici compagnie, il secondo con diciotto, il terzo con venticinque, combatterono dall’alba fino alle 23 ore di sera, e dei nimici morironvi 400, altrettanti i feriti: ai nostri mancò la munizione di polvere. Il Ferruccio rimase ferito nel secondo, non già nel primo assalto: molti dicono di una sola ferita: il Varchi ne parla in plurale: nella lettera del 6 luglio scritta dai commissari di Volterra ai Dieci, oltre la percossa ricevuta alla batteria, si rammenta la cascata da cavallo: e il Diario dello Incontri riporta del pari di una mala ferita che si fece al ginocchio, per esserglisi abbattuto sotto il cavallo mentre con gran impeto si spingeva ad ammazzare un Volterrano che vide starsene scioperato invece di accorrere ai bastioni: alla quale si aggiunse la febbre: e si fe’ portare dove si combatteva per essere veduto dai soldati. Questo secondo assalto incominciò il 21 giugno, un’ora prima del giorno; dopo 500 cannonate che atterrarono in più parti le mura riparate con botti, materasse e terra, alle ore 20 salirono all’assalto: tre volte si spinsero su la breccia, e tre furono respinti così duramente che dopo quattro ore si dettero alla fuga lasciando sul campo 800 tra morti e feriti. Quando l’esercito imperiale si partì con tanta vergogna, i Ferrucciani gli corsero dietro menando rumore con teglie, padelle e corni, dicendogli villania. Fabrizio aveva tratto seco 500 fanti e 5000 cavalli: il marchese 4000 fanti: bagaglioni e marraioli non si contano.
Capitolo Ventesimonono
La battaglia della Gavinana
I Dieci, pressurati dal popolo, il quale, non trovando più sozzure e schifezze da cibare, urlava con l’urlo della fame, scrissero al Ferruccio che per amore di Dio si avacciasse; che se non poteva andare lui, spedisse ad ogni modo tutta quella gente preponendole Giovanbatista Corsini detto lo Sporcaccino, o quale altro gli paresse più idoneo; nel qual caso davano a colui che mandasse la medesima autorità. Presentata questa lettera al Ferruccio, dopo averla letta e poi ripiegata, tenendola in mano, la prese da un lato co’ denti dicendo:
“Andiamo a morire”.
Senz’altro indugio il Ferruccio si pose in via, lasciata Pisa il 1 agosto 1530 e movendo per la Valdinievole: chiesta e non ottenuta dai Pesciatini la vettovaglia, fatto mostra di prendere la via maestra e piana, prevalendosi dell’oscurità della notte, tralascia l’agevole sentiero e si getta tra i monti che gli sorgono a mano dritta nelle vicinanze di Collodi. Diventando la notte più nera, ed essendo ormai pervenuto a Medicina, castello del contado lucchese, gli parve di qui rimanersi, tanto più che in questo luogo aveva dato ritrovo a certi capi di parte cancelliera, per propria prestanza e più per le molte parentele ed amicizie a sostenere le cose della Repubblica pericolante adattissimi.
“Voi non dite la verità. Lasciate l’uomo arbitro di giudicare i casi secondo i quali deve o no mantenere la fede, ed lui vi proverà ch’ebbe sempre ragione. Rispondete, vi prego, messere commessario, alla mia domanda; che fareste voi?”
“Io! – manterrei la fede data e mi romperei il cuore”.
“Ed io serberò la fede, e, senza pure rivedere la faccia de’ miei in questa stessa notte, con le armi ed il danaro che mi trovo addosso, me ne vado in Ungheria per combattere contro il Turco e spendere la vita in favore della cristianità”.
Il due di agosto riprese l’esercito fiorentino il sentiero per le aspre giogaie di quei monti, ed affrettando, quanto meglio poteva, il passo, arrivò a notte fitta in Calamecca, castello della montagna pistoiese, di fazione cancelliera. Ferruccio considerata la stanchezza de’ suoi e il bisogno di averli ben validi nello scontro, che aspettava imminente, dell’esercito nemico, ordinò nuova posa.
Percorsa l’alba del giorno tre di agosto, che fu festa di santo Stefano, l’esercito della Repubblica continua la via. L’avantiguardia fiorentina, scesa in fondo della valle, piegò alla volta di San Marcello, là dove anche ai giorni nostri occorre una cappella di pietra grigia dedicata alla Vergine, posta lungo la strada che da Pistoia conduce a Modena. I terrazzani non conobbero il pericolo prima che sel vedessero irreparabilmente caduto addosso; la nebbia fitta impedì loro pensassero ai ripari. Irruppe pertanto nel castello la piena dei nemici: ben s’ingegnarono chiudere le porte della Fornace e del Poggiuolo, ma non poterono; chiusero quella del Borgo, e a nulla valse, imperciocchì gli assalitori accatastandovi davanti copia di legna suscitassero tale un incendio di cui anche ai tempi presenti occorrono vestigi. Dopo quel caso mutarono nome alla porta, e di porta del Borgo lo chiamarono porta Arsa, che tuttavia le dura. Il Ferruccio, ignaro che sopra il suo capo si era commessa tanto nefanda tragedia, co’ principali dell’esercito si ferma nelle stanze terrene della casa del trucidato Mezzalancia.
Il cielo presago della sventura che stava per avvenire incupì maggiormente la sua faccia, di grigio diventò nero e parve assumere gramaglie pel prossimo lutto. La pioggia dirotta allaga d’improvviso la terra.
Per altra parte il principe di Orange, pervenuto il due agosto a Pistoia, vi si fermò tutta la giornata attendendo ad ascoltare gli esploratori e spedire di ora in ora ordini e messi a Fabrizio Maramaldo e ad Alessandro Vitelli, affinché si stringessero alle spalle del Ferruccio senza lasciargli campo a ritirarsi; la qual cosa gli sembrò avere molto bene conseguita quando gli fu riportato che il capitano Cuviero con gli Spagnuoli ribelli di Altopascio, chiesto ed ottenuto perdono, si era congiunto con lui, e che Nicolò Bracciolino con mille armati di parte panciatica lo sosteneva e guidava. A ora di vespro, il principe, salito in cima del campanile del duomo, domandò ai cittadini pistoiesi che lo circondavano gl’indicassero la strada da tenersi fra i monti; della qual cosa, secondo che i ricordi dei tempi ci fanno fede, fu pienamente istruito da Bastiano Brunozzi. Appressandosi la sera, dietro la scorta di Bastiano Chiti, uomo pratico del paese, si pose in via e camminando tutta la notte si condusse la mattina sotto i Lagoni, luogo quasi ugualmente distante da Gavinana e Pistoia, e si accampò in certo piano tutto ingombro di castagni che torna sopra a San Mommì, ricoperto dal poggio che riguarda Pontepetri e le Panche, adattissimo alle insidie e tale da sorprendere senza essere scoperto il Ferruccio, quando si fosse inoltrato, per la strada ch’egli disegnava tenere. Mentre l’Orange, in questo luogo fermando l’esercito, attendeva a riconfortare gli spiriti, ecco arrivare affannoso da capo alle piante contaminato di fango un sacerdote; dalla paura turbato e dalla agonia della vendetta, trafelato di stanchezza, non trovava parole intiere; si aiutava col gesto né giungeva a farsi intendere meglio; lo consigliarono a riprendere lena, lo ristorarono con vino generoso, sicchì, tornatogli l’animo, cominciò a dire: “Ferruccio, si trova a San Marcello; la terra ormai ì stata ridotta in cenere, i popoli sepolti nelle rovine… io, per la grazia di Dio appena salvo, ho veduto con questi miei occhi trucidata tutta la mia famiglia; a che tardate? Muovetevi, se volete sorprendere il nemico come dentro una fossa”. Di ciò tanto opportunamente avvertito l’Orange dispose muoversi, molto più che conobbe a prova il breve riposo dopo la notte perduta sgagliardire piuttosto che afforzare il corpo; per lo che, recatosi in mezzo all’esercito accompagnato dai principali capitani, salì sopra un monticello e con lieto sembiante rivolto ai soldati disse loro: “Soldati, si avvicina il termine dei comuni nostri fastidi. Vinta questa battaglia, torneremo a casa onorati ed anche doviziosi. Il papa, come uomo che si fida poco di voi e meno di me, non vuol pagarci, se prima non vinciamo. Vinciamo dunque; se non per volere, mostriamoci eroi per necessità. Della vittoria sarebbe piuttosto follia disperare che sperare baldanza. In ciò mi affida la prodezza vostra in tante venture provata, la dappocaggine dei Fiorentini…”
I soldati di Orange si spingessero innanzi e facessero ogni sforzo di entrare in Gavinana prima del Ferruccio. Affrettando il passo, i cavalleggeri imperiali si accostano a Gavinana e ricercano i terrazzani aprissero le porte a nome dell’imperatore e del papa.
I principali del castello, recatisi sul ballatoio di porta Piovana, rispondono alla intimazione: aprirebbero volentieri, purché avessero fede che sarebbero lor salve le sostanze e le vite. I capitani dei cavalleggeri soggiungono; “Aprite tosto; di ciò vi malleviamo sotto parola del principe Filiberto di Orange capitano cesareo, che di poco tratto ci seguita.”
E i terrazzani da capo: “Di voi punto non ci fidiamo; aspettate che venga il principe, e quando lui proprio ci assicuri, vi apriremo le porte; né l’esitanza nostra deve adontarvi, imperciocché essendo Gavinana ab antiquo di parte cancelliera, e occorrendoci tra voi non pochi panciatici, crudelissimi nemici nostri, meno di voi sospettiamo che di loro”.
Tutte queste parole mettevano innanzi i Gavinanesi non per voglia che avessero di arrendersi, ma per dar tempo di arrivare al Ferruccio, a cui avevano mandato celerissimi messi, ed ora, per sempre più affrettarlo, si posero a suonare furiosamente le campane a martello. I messi di Gavinana incontrano il Ferruccio nella casa del Mezzalancia.
“Affrettate i passi, per Dio! messere lo commessario; Gavinana appena si tiene, tanto l’assalgono grossi i nemici d’intorno; ma per poco che tardiate, voi troverete un mucchio di rovine. Il principe d’Orange in persona comanda all’esercito”.
“Maledetta sia la paura che vi fa vedere dappertutto il principe di Orange come se fosse il trentadiavoli e la versiera! Vi pare che lui avrebbe voluto o potuto abbandonare il campo sotto Firenze?”
“Io vi giuro pel corpo di Cristo, messere Ferruccio, che Orange vi sta incontro; molti dei vostri lo hanno veduto”.
Allora il Ferruccio trasse un sospiro e tra i denti mormorò: “Ahi! traditore Malatesta!”
Uscito all’aperto, il Ferruccio di slancio saltò in sella al suo buon cavallo e, levatosi l’elmo di testa, all’esercito, che gli stava schierato davanti come in anfiteatro, rivolse queste nobilissime parole, conservateci da Bernardo Segni al quarto libro delle sue Storie:
“So per esperienza, soldati fortissimi, che le parole non aggiungono gagliardia nei cuori generosi, ma sì bene che quella virtù che vi è dentro rinchiusa, allora si mostra più viva che l’occasione o la necessità la costringe a far prova di sé. Siamo in termine dove l’una e l’altra cosa ci si apparecchia per fare al mondo più chiara e più bella la costanza e la fortezza degli animi nostri; l’occasione vedete bellissima e sopra ogni altra onoratissima che ci si mostra difendendo con giusto petto l’onore delle armi italiane e la libertà della nobilissima patria nostra, per farvi risplendere per tutti i secoli di chiara luce; la necessità ci ì presente e davanti agli occhi, che ci fa certi che ritirandoci saremmo raggiunti dalla cavalleria nemica, e che stando fermi non avremmo luogo forte da poter difenderci né vettovaglia da poter vivere, quando bene prima entrassimo in quelle mura. Restaci adunque solo una speranza, e questa ì la disperazione di ogni altro soccorso infuorchì di quello che dalla virtù delle vostre destre infino a questo giorno state invittissime e dal vostro animoso spirito procede. Questo ci farà in ogni modo vincere; né, benché siamo meno per numero, ci dobbiamo diffidare, per la speranza, oltre a quella della virtù vostra, maggiormente in Dio ottimo massimo; che, giustissimo e conoscitore del nostro buon fine, supplirà con la sua potenza dove mancasse la forza nostra”.
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